Sclerosi multipla ventitrè anni dopo:
ricalcolo del percorso

Questo scritto non ha l’intento di spiegare
la Sclerosi Multipla da un punto di vista medico,
è solo il mio vissuto con Lei, il mio
personalissimo cammino dalla disperazione alla speranza,
le fughe consolatorie dopo ogni attacco.

1992

Mi alzo, mi lavo la faccia. Mi sto lavando la faccia? Non sento l’acqua sulle guance. O sono le mani? L-a man-o? In effetti formicola, come fosse addormentata. La scuoto. Sollievo momentaneo, poi le formiche ricominciano a camminare.

Ieri sono stata a mangiare da mio padre e dalla sua compagna. Appena tornata a casa ho vomitato. No, questo è un falso ricordo, i miei stanno ancora insieme quando mi viene il primo attacco, non posso aver vomitato la cena in quel frangente, forse è stato nella recidiva, della quale ho pochi e vaghi ricordi. Ricordo bene, invece, il primo attacco. Davanti al lavandino, il rubinetto aperto, l’acqua mi scorre sul viso, lo specchio me lo conferma, ma io nella emiparte sinistra non la sento. È caldo, è agosto. A casa mangio, poi vado in giardino: di solito mi metto al sole, oggi non ci riesco. Ho un leggero senso di nausea, sto all’ombra. Il mio fidanzato suggerisce di andare a chiedere dal nostro medico di base. Non mi sento tanto male, mi sento strana, credo di essere solo stanca, ma accetto la proposta.
La dottoressa mi vede, mi fa qualche domanda, poi mi consiglia di andare al pronto soccorso.
A Bologna, la visita e altre domande:
“Hai bevuto?”
“Eh?”
“Hai assunto sostanze alcoliche, droghe?”
“No!”, rispondo stupita, tanto la questione è lontana da me che non riesco nemmeno a indignarmi.
“Va bene. Chiudi gli occhi e cammina verso di me”.
È stato un attimo, se l’infermiere non fosse stato pronto ad afferrarmi sarei andata a sbattere a peso morto contro lo scaffale.
“Subito ricoverata, neurologia.”
“Cosa? No, io voglio andare a casa!”

Sono al secondo anno di psicologia: nel mio letto d’ospedale penso a come ho fatto a non accorgermi di essere tanto grave; tutt’ora non sono spaventata, solo scocciata: passerà, qualunque cosa sia. Forse sono stata colpita all’emisfero di riconoscimento delle emozioni, per questo riesco a mantenere il buonumore, l’ho letto in qualche libro di neurologia. Provo in prima persona molti degli esami che sto studiando: potenziali evocati, risonanza magnetica, campo visivo, tomografia assiale computerizzata, mi sento dentro un esperimento di kafkiana cospirazione.

Sindrome demielinizzante, sclerosi a placche.

“Non è una malattia mortale, ma può essere invalidante.”
Questo il momento nel quale si frantuma lo specchio del mio sé corporeo. Cammino da sola, spariti visione doppia e sonnolenza. Fino ad un attimo fa mi sembrava di aver già superato anche questa, invece par essere solo l’inizio. Non riesco a centrarmi sul qui ed ora.
Riesco a fissare solo quello che potrebbe essere: la sedia a rotelle.
L’unico pensiero che mi dà pace è censire i diversi metodi di suicidio. Barbiturici: e se poi mi salvano?
Buttarsi da un ponte, una torre, una rupe: ne sarò fisicamente in grado? Schiantarsi in auto: e se resto viva?
Prendere il porto d’armi e spararsi un colpo alla testa. Questo il metodo più sicuro. Mi ci ero affezionata. Tanto che avrei voluto andarci comunque, a sparare al poligono, poi mi sono spaventata: se avessi perduto l’arma, me l’avessero rubata, se qualcuno finiva ucciso o ferito? Meglio prenderla all’ultimo momento, servirsene senza il tempo di riflettere, non portarsela troppo in giro.

Il Primo Attacco mi colpisce occhi, equilibrio, gusto. Non voglio vedere, ho bisogno di sostegno, la vita non ha più sapore.

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